L’UMANITÀ, IL DIGITALE E I “FUTURI POSSIBILI”

Intervista VIP con Luciano Floridi

Luciano Floridi (Oxford-Bologna) e Federico Cabitza si sono confrontati su uno dei grandi temi del nostro tempo: l’intelligenza artificiale (IA), uso, sviluppo, limiti. Bompiani ha pubblicato i tratti salienti di una riflessione multidisciplinare che investe il destino dell’uomo e il futuro prossimo venuto del pianeta che abitiamo, tra paure, speranze, progetti. Abbiamo chiesto a Luciano Floridi di toccare i nodi problematici di questa delicata fase della contemporaneità.

Professore comincerei con una citazione: “Sono affascinato dai futuri possibili a patto che sia sempre l’uomo a guidare la macchina”. Nel suo saggio si fa riferimento a questa celebre affermazione del Cardinale Martini. Lo sviluppo dell’IA va letto nella chiave interpretativa proposta dal gesuita?

Il saggio riprende i temi principali della mia “Martini Lecture”, parte del ciclo che si ispira al magistero del grande Cardinale e teologo. Quando Martini usa la frase “futuri possibili” cui lei si riferisce nella domanda, non intende certo alimentare la fantascienza, né alcuna speculazione fantasiosa, intende piuttosto sottolineare l’apertura razionale che bisogna avere rispetto al cambiamento. L’umanità deve saper esercitare responsabilità e visione quando lavora sulla ricerca e l’innovazione. Ricordiamoci che il futuro non avviene casualmente, non è una pietra che rotola dall’alto, è fatto di miliardi di progetti e di idee che trovano punti di convergenza e equilibri. Mi viene in mente l’immagine delle gocce d’acqua in un bicchiere pensando ai grandi movimenti di popolo che hanno mutato la faccia della storia nei secoli. Assumiamoci dunque le nostre responsabilità, questo l’insegnamento di Martini che mi sento di condividere, anche dalla mia prospettiva che è quella di un laico agnostico. La vita è la nostra, non dimentichiamolo mai.

“Onlife”, come ci ha già spiegato in una precedente intervista pubblicata da Cybersecurity Trends, è la nuova categoria dell’essere entro cui ci muoviamo. Quale deve essere la “distanza” che dobbiamo mantenere dai dispositivi elettronici per usarli con intelligenza, sicurezza e adeguata consapevolezza?

Quella della distanza è una riflessione importante. Soggetto e oggetto sono categorie che appaiono oggi radicalmente mutate. Di conseguenza anche la distanza tra queste componenti non è quella che siamo abituati a considerare. Persino la relazione che intratteniamo con il mondo risulta modificata, la simpatia e l’antipatia, per dirla con i termini che usavano i filosofi della classicità, ha subito delle varianti molto importanti. La distanza che misuravamo per raggiungere, per esempio una città, non ha più un riferimento preciso che consente di misurarla, perché il digitale sta modificando il paesaggio urbano, attraverso percorsi differenziati in momenti differenti, a seconda del traffico. Gli oggetti sono interattivi, li possiamo toccare, come un’icona che si accende sullo schermo del mio pc, ma non la potrò fisicamente spostare, come si fa con un sopramobile, una pentola, un paio di occhiali, eppure rimane pur sempre qualcosa con cui interagisco. Anche il soggetto si sta modificando, socializza il suo essere nella rete e con gli strumenti connessi, riconsiderando continuamente la sua identità. La distanza è diventata dunque un rapporto tra interattività e socializzazione. L’individuo manifesta una molteplicità di volti nell’universo tecnologico, la sua identità si articola di conseguenza, la sfida è quella di non frammentarla in mille rivoli, perdendosi tra un tik tok, un social e un twitter.

L’intelligenza artificiale è un’ulteriore manifestazione di quella che Emanuele Severino definiva “cieca volontà di potenza della tecnica”. Come si fa a sgombrare il campo da tante false “letture” che generano paure e che di fatto sono un freno all’innovazione?

La ricetta è quella di sempre, la dovremmo conoscere: serve più conoscenza. La paura è fomentata dall’ignoranza, paura sociale, quindi dell’altro ma anche della tecnologia. La tecnologia esercita una domanda di conoscenza molto precisa. La responsabilità rimane la nostra, quando utilizziamo mezzi e strumenti sofisticati e potenti. Attenzione però: credo che sia pericoloso parlare di umanità in generale, come se fosse un unico blocco. Da un lato abbiamo una parte del mondo che produce, utilizza, si serve della tecnologia, per controllare e dominare, dall’altra parte miliardi di persone che non conoscono il linguaggio della tecnica, non la producono e non la controllano e perciò rischiano di subirla. Non c’è un’umanità e una tecnologia prese in universale, ci sono tante tecnologie e tante umanità, il tema è come si rapportano tra di loro.

Questo apre la riflessione sulla diseguaglianza, sulla dinamica che contrappone, per usare un termine gramsciano, ceti egemoni e ceti subalterni, nazioni forti e nazioni deboli. È evidente che serve una sensibilità etica per bilanciare il percorso dello sviluppo della scienza e della tecnologia insieme a quello della società e dell’ambiente. Oggi comandano, non tanto i produttori di informazione, ma chi controlla l’ambiente digitale che rende possibile la circolazione delle informazioni e la formulazione delle domande essenziali da cui dipende l’evoluzione economica, politica e sociale della contemporaneità. Per dirla con una frase a effetto la nuova morfologia del potere è la morfologia dell’incertezza.

L’IA nella quarta rivoluzione

Nell’economia della quarta rivoluzione, descritta con compiutezza di analisi da un suo precedente saggio, l’IA che posto occupa?

Immaginiamo di aver costruito un ambiente e di avere allo stesso tempo progettato le forze che lo fanno funzionare. Siamo nella condizione di chi ha costruito un’isola, ed è anche in grado di controllare i movimenti e le azioni degli animali che si muovono in quell’isola. A questo punto c’è da chiedersi: l’ambiente e le forze che agiscono autonomamente in questo ambiente chi le controlla?

La mia ricerca attuale si sta concentrando sul fatto che l’IA non è una nuova forma di INTELLIGENZA, MA UNA NUOVA FORMA DI CAPACITA’ DI AZIONE, una nuova agency, per usare un termine inglese che non trova corrispettivo nel nostro vocabolario. Forme di agency nel mondo ne abbiamo conosciute tante. La agency della natura: terremoti, vulcani, il vento, “cose che fanno cose”, per usare un gioco di parole. La agency biologica: il cavallo, il cane pastore…quella umana, degli individui che si muovono nell’universo, ma che sono anche in grado di creare il motore, aprendo la strada per la creazione della agency meccanica. E ora ne abbiamo una quinta…

A cosa si riferisce?

A una agency autonoma che ha una capacità di agire che assomiglia al motore a scoppio in quanto ingegnerizzata, ma anche un po’ a un animale. Pensiamo all’algoritmo che ha una sua indipendenza, ma qualcuno lo deve pur guidare per raggiungere un risultato, come un cavallo che corre da solo, ma va guidato nella direzione giusta. Torniamo ancora alla riflessione iniziale di Martini e la nostra nuova isola. In un ambiente sempre più digitale controllare queste cinque forme di capacità di agire: naturale, animale, umana, meccanica e digitale vorrà dire essere i “nuovi padroni” dell’universo. Si stanno di fatto sovrapponendo, in modo pericoloso, i controllori dell’ambiente e i controllori di questa nuova capacità di agire. Siamo oltre il vecchio dominio delle élite, fondato sulla differenza di classe e di censo, entriamo in una forma di controllo molto più pervasiva, quella che riguarda l’ecosistema e le forze che si muovono in esso.

Che cosa comporta tutto questo?

Nuovi scenari di intervento e di responsabilità per le classi dirigenti innanzi tutto. È possibile che fra pochi anni arriverà il quantum computing, ultima frontiera dell’evoluzione computazionale. Se le stesse persone avranno il dominio anche su questo nuovo strumento i pericoli aumenteranno. Chi controllerà i controllori? Non stiamo parlando di fantasie astratte, perché questo futuro è già presente. La sovrapposizione lineare tra egemonia ambientale, egemonia in termini di agency e di capacità di prevedere il futuro deve fare alzare l’asticella dell’attenzione. Non vedo altra via di uscita: i controllati devono controllare i controllori, la società deve maturare questa capacità, aggiornando quanto scritto nella costituzione, che assegna al popolo la sovranità. Il circolo virtuoso di ogni democrazia che funzioni è questo, controllare chi comanda, avendo la possibilità di rimuoverlo nel momento in cui perde di vista il bene comune. Anche il business deve sottostare a questo controllo “popolare”, senza una governance illuminata le nostre democrazie saranno destinate ad ammalarsi con le conseguenze del caso.

I nuovi profili di rischio

Lo sviluppo delle tecnologie impone nuovi profili di rischio. Cosa dice un filosofo ai suoi studenti se come abbiamo appurato in questa conversazione lo stesso vocabolario della conoscenza ha mutato statuto: soggetto, oggetto, spazio, tempo, relazioni causali, non sono definibili in maniera univoca, come orientarsi allora?

È importante mettersi insieme, confrontarsi e tentare di socializzare la conoscenza. Nessuno può pretendere di avere una visione complessiva esaustiva, ma tutti possiamo portare un tassello, un contributo per capire e disegnare meglio la realtà. Anche se il mondo cambia mentre credi di averlo studiato e capito bisogna ricordarsi che i fondamenti, la natura umana restano invariati. Per questo vale la pena leggere Platone o Aristotele che ci dicono cose eternamente valide. Con un piccolo esempio biografico, sto leggendo “La ricerca del tempo perduto”.

Probabilmente ci vorrà un anno, ma mi servirà molto nel mio lavoro quotidiano, per la capacità introspettiva, lo scandaglio dell’animo umano, la lettura della società nelle sue gioie, paure, speranze, pregiudizi o aspettative che fa Proust e che rimane valida anche ai nostri giorni. Rimane poi importante abbracciare l’innovazione. Prendere sul serio l’”altro”, la diversità con spirito inclusivo. Vuol dire comprendere che anche nella diversità, la comune umanità è il fattore che ci lega e che può legare anche il dialogo intergenerazionale. Wittgenstein diceva che devi arrivare dove tocchi il letto del fiume, per intuire la sostanza delle cose per raccontarla senza tempo, senza però illuderti che il tuo sia l’unico discorso.

Parlare di quella temporalità che ci diversifica, senza però generare conflitti può aiutarci. Contemperare la costanza delle invarianti e l’accelerazione della temporalità, può infatti rappresentare la chiave che porta al domani. Questa è la sfida, che comincia dai primi anni della scolarizzazione, che parte dalle nostre prime e indimenticate maestre e docenti (e parlo al femminile per ragioni sia personali sia sociologiche). Nel mio caso, cinque insegnanti alle quali devo la mia formazione, me le lasci menzionare, per uno come me che non ha memoria e non si ricorda neppure che cosa ha fatto ieri sono nomi importanti: Mattei (elementari), Geromel (medie), Viterbo (ginnasio), Migliorini (liceo), Haack (università). Per concludere, sono convinto che è anche su questi fattori – tolleranza, socializzazione, solidarietà, e poi intelligenza, conoscenza e innovazione – che misureremo il grado di progresso che saremo capaci di raggiungere nel futuro che ci appartiene.

Autore: Massimiliano Cannata

 

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