L’INFOSFERA HA BISOGNO DELL’INTELLIGENZA DELL’UOMO E DI UN’ETICA PRATICA PER SCANDIRE IL PROGRESSO DELLA CIVILTÀ

Intervista VIP a Luciano Floridi

Con la pubblicazione del saggio Etica dell’intelligenza artificiale (ed. Raffaello Cortina) Luciano Floridi, professore ordinario di Filosofia e Etica dell’Informazione all’Università di Oxford e di Sociologia della Cultura e della Comunicazione all’Alma Mater Studiorum Università di Bologna, aggiunge un importante tassello per la costruzione di un sistema filosofico finalizzato a spiegare il profondo cambiamento d’epoca determinato dall’eccezionale sviluppo delle tecnologie digitali, che segnano la contemporaneità. Teorico della “Quarta rivoluzione”, la ricerca dello studioso conduce all’analisi di quel “salto ontologico” che ha proiettato l’individuo ad “abitare” la dimensione dell’infosfera, in cui reale e virtuale sono due facce inscindibili della stessa realtà con tutte le conseguenze che sul piano epistemologico ed esistenziale questo comporta.

Prof Floridi questo ultimo lavoro è orientato alla sistematizzazione dell’etica. I grandi del pensiero in epoca anche molto remota, da Aristotele a Kant per citare figure poste a fondamento di tutta la cultura del mondo occidentale lo hanno fatto lasciando un’impronta indelebile. Al di là di questi paragoni di certo ingombranti e venendo all’attualità del suo interessante saggio Lei scrive nella parte introduttiva che l’IA ha bisogno di una cornice concettuale più che di una spiegazione storico tecnologica, per essere compresa. Possiamo partire da questa sua precisazione, che appare importante in quanto possiede le sembianze di un pronunciamento di metodo?

 Ci tengo a precisare subito che impegnarsi a ricostruire il percorso cronologico dello sviluppo delle tecnologie, lavoro per altro meritevole, è insufficiente a fornire un contributo efficace alla loro comprensione. Il saggio è centrato sull’etica, come lei accennava nella domanda, ma questo non vuol dire necessariamente occuparsi degli aspetti cognitivi e intellettuali in modo sganciato dalla realtà. Al contrario, il mio intento è quello di indagare l’impatto concreto dello sviluppo tecnologico nella nostra vita quotidiana. Lo studio si concentra su alcune questioni procedurali, senza fare nessun processo alle intenzioni, soprattutto senza etichettare con “pregiudizi” di valore l’impetuoso sviluppo del digitale, che è un dato oggettivo incontrovertibile. Non c’è nessuna oscura “macchinazione” dietro le quinte, fortunatamente il progresso della scienza e delle tecnologie va avanti a dispetto delle false convinzioni e dei pregiudizi, che spesso si alimentano sui mass media e i social.

Essenziale appare nella trattazione il divorzio tra la capacità di risolvere problemi e l’intelligenza nel farlo. La differenziazione tra mezzo 33 e strumento rimane essenziale per mantenere lucidità nell’indagine scientifica, ma rimane un principio difficile da attuare, tanto da sollevare le preoccupazioni di tanti studiosi, il caso più eclatante è quello del filosofo Emanuele Severino, che negli ultimi scritti paventava un’irriducibile “una cieca volontà di potenza della tecnica, divenuta fine a sé stessa”. Preoccupazioni mal poste? 

Purtroppo, confesso la mia ignoranza nei confronti del lavoro di Severino e non vorrei pronunciarmi su cose che non conosco. Per rimanere al nostro ambito di riflessione credo che vada fatta una distinzione tra la capacità di agire con successo e la necessità di esercitare l’intelligenza nel farlo. Nei nostri comportamenti, essere intelligenti è vitale, ma l’IA opera con notevole successo senza alcun uso dell’intelligenza e questo è straordinario. Vi sono automobili con guida largamente autonoma che fanno i loro percorsi nelle città, ma questo non vuol dire che non serve l’intelligenza se guidiamo noi. L’automobile senza un uomo al volante ha la stessa intelligenza del frigorifero, non dimentichiamolo. Quello che va osservato è che il delta tra capacità di azione e intelligenza aumenterà sempre di più. Non per questo il nostro apporto di esseri razionali diventa superfluo, perché saremo sempre più chiamati a governare i sistemi complessi, e a fare delle scelte con un numero crescente di variabili. Il mio robot può tagliare l’erba meglio di me, ma è il momento giusto di farlo? E dovrà tagliare prima quella del giardino davanti casa o quella dietro la cucina? L’IA risolve un problema e paradossalmente lo rende “stupido”. Pensiamo al gioco degli scacchi, che un computer può condurre con padronanza e meglio di qualsiasi giocatore. Se dovessimo farlo noi dovremmo esercitare tutta la nostra intelligenza.

L’individuo che ormai abita l’infosfera, come si colloca tra quella che lei definisce “riserva di capacità di agire” e potenza crescente dell’IA?

L’uomo fa parte di un sistema che ha bisogno dell’intelligenza per funzionare. Siamo dei mammiferi particolarmente evoluti, che processano dati e informazioni mediati dall’intelligenza. L’ambiente entro cui ci muoviamo sollecita le nostre facoltà “superiori”. Le reti neurali e il machine learning non sono in sé una novità, li avevamo già da decenni, quello che nel passato mancava erano i dati e la potenza computazionale di cui oggi disponiamo. Pensiamo all’elicottero di Leonardo, interessante sul piano della concezione ideale, ma impossibile da far volare senza un motore, con le sole conoscenze e tecnologie in possesso in epoca rinascimentale.

Con l’IA è stata segnata un’escalation, siamo entrati nella società dei big data, con tutte le conseguenze del caso. Il metaverso, realtà che si sta facendo strada, apre ulteriori fronti di riflessione, sarà molto importante capire e regolamentare questa nuova realtà, anche sul terreno della privacy e della tutela della riservatezza, elementi di rischio che, come le cronache ci fanno vedere ogni giorno, risultano fatalmente amplificati.

Soffermiamoci su quest’ultimo aspetto, centrale per la nostra rivista. Lo sviluppo dell’IA e dei processi di automazione che cosa comportano sul piano della cyber security? 

La lettura del progresso è sempre biunivoca, per questo a mio giudizio non si deve essere né apocalittici né integrati, per usare una celebre dicotomia. Pensiamo ai sistemi assicurativi che oggi si fondano su previsioni elaborate con l’IA, oppure alle proiezioni sull’emergenza climatica, si basano sulla grande potenza di calcolo di cui disponiamo che ci consente di colmare tanti gap, di individuare gravi vulnerabilità, anticipando il verificarsi di molte minacce. Amplificazione del rischio e responsabilizzazione di chi opera nella cyber security è evidente che camminano insieme. Lo si sta vedendo anche in questa fase delicata, in cui sull’Europa spirano venti di guerra. Si paventano da più direzioni attacchi informatici, per sventarli occorrono azioni di sistema concertate, oltre all’esercizio di elevati livelli di competenza. Non mi stanco di ribadire in questo scenario difficile da leggere che rimane centrale il fattore umano. Lo studio delle azioni e dei comportamenti sono oggetto dell’etica che assume, ritorno a quanto ho affermato all’inizio, una valenza pragmatica essenziale per muoversi nel contesto attuale.

L’ “etica soft”, cui è dedicato un capitolo del saggio, in che rapporto sta con l’etica tradizionalmente intesa?

La definirei un’etica “post compliance”. Intendo dire che non ci troviamo di fronte all’etica classica, di stampo rigorista, come quella kantiana, per esempio, assoluta, indifferente rispetto alla legalità perché viene prima delle norme. La morale che a volte dobbiamo applicare si muove dentro il perimetro di leggi eticamente corrette. Faccio un esempio concreto: il minimo salariale risponde a dei criteri tabellari molto precisi, questo non vuol dire che non si possa riconoscere uno stipendio superiore ai lavoratori se lo si ritiene giusto.

 Allo stesso modo in una partita di calcio se qualcuno si fa male fortuitamente l’arbitro non è obbligato a fermare il gioco se non ravvisa irregolarità, questo non vuol dire che i giocatori non possano decidere di fermarsi ugualmente per prestare i soccorsi del caso. È questa “esigenza etica” che vive dentro norme che a loro volta rispettano i principi morali, l’oggetto principale dell’indagine che svolgo nel mio saggio.

Esiste un’ulteriore declinazione dell’etica, quella che chiama in causa gli “algoritmi”. Può chiarirci le idee anche in questo particolare ambito?

Gli algoritmi che utilizziamo di solito non presentano delle criticità specifiche. Quasi sempre i problemi insorgono dall’utilizzo dei dati sui quali addestriamo gli algoritmi. Per esempio, le discriminazioni nascono perché sono già presenti nei dati che usiamo. Bisogna considerare che è l’alto livello di complessità interna di queste tecnologie che le rende poco trasparenti. L’esempio del traffico in città può far comprendere bene quello che intendo. È facile spiegare perché c’è traffico in una zona della città: per esempio piove, è l’orario di chiusura degli uffici e c’è lo sciopero dei mezzi di trasporto pubblico. Ma sarebbe impossibile determinare perché ogni guidatore è esattamente dove si trova, e quale tragitto e esigenze hanno causato il suo contributo al traffico. L’opacità è una componente quasi ineliminabile in sistemi così ramificati. La categoria della causalità, come la abbiamo appresa dalla fisica classica di stampo newtoniano, non regge più in sistemi lontani da equilibri elementari. Le scienze sociali lo sanno molto bene, e per questo perseguono letture macroscopiche dei loro fenomeni senza pretendere di entrare nel dettaglio e neppure nei micro elementi molecolari. La storia come disciplina di studio può insegnarci molto in questo senso. Rispetto ad eventi come la seconda guerra mondiali, sappiamo spiegare a grandi linee le cause, ma se dovessimo focalizzare momento per momento tutte le implicazioni di ogni singola azione e reazione, il problema della spiegazione risulterebbe incomprensibile. È evidente che bisogna adeguare il modello. La categoria di causa effetto nella logica lineare del determinismo classico non regge di fronte alle mutazioni di una società così dinamica, complessa e tecnologizzata. Lo stesso vale per le reti neurali. Va cambiato il metodo di indagine e l’ermeneutica dei dati e dei fenomeni, per trovare la giusta lettura del cambiamento d’epoca entro cui siamo immersi.

Il “gambettò” e il cambiamento climatico. Un “neologismo” che incuriosisce. Di che cosa si tratta?

Chi gioca a scacchi lo sa bene. Si tratta del sacrificio di un pedone, quindi di uno svantaggio, che però porta strategicamente alla vittoria della partita. È quello che dobbiamo fare se vogliamo osservare le leggi della sostenibilità. Il digitale consuma molta energia è vero, ma senza il digitale non potremmo avere tutti i servizi e le soluzioni che ci servono per salvare l’ambiente. In altre parole, alcuni sacrifici sono a volte necessari in vista di un fine superiore. Questo dovrebbero capirlo, su un altro piano, anche le classi dirigenti, spesso miopi, legate all’ultimo sondaggio. In vista di un progetto superiore, a volte vanno fatte scelte impopolari. Il progresso si genera anche così.

Siamo un bellissimo “errore di natura”, malgrado tutto, si legge nell’ultimo paragrafo del libro. Non le pare una conclusione troppo “sibillina”?

Mantengo una posizione molto laica rispetto ai grandi interrogativi che riguardano l’origine dell’uomo e dell’universo. Noi esseri umani siamo un mistero, altamente improbabile dal punto di vista statistico. Abbiamo capacità uniche, meravigliose, possediamo una vita mentale straordinaria che non ha paragoni nel creato.
Non so se ci sia un destino a monte e a valle, un architetto che abbia voluto tutto questo. So però che èandata così, abbiamo vinto il biglietto della lotteria di Madre natura. Dobbiamo sentire tutto il peso e la responsabilità di questa condizione unica nel creato. Siamo gli unici esseri ad avere non solo diritti (anche gli animali ne hanno) ma anche doveri. Ecco perché mi piace definire l’umanità un magnifico errore di natura, un “beautiful glitch”.

Un’ultima sollecitazione sulla disciplina che con tanta passione lei insegna: la filosofia, che sembra oggi aver recuperato un fascino che sembrava appannato. Imprenditori, manager, consulenti, uomini delle istituzioni non esitano, infatti, a chiamare in causa quel sapere filosofico che sembrava destinato a finire nella cassetta dei vecchi arnesi, belli ma inutili. A che cosa è dovuta questa rivalutazione?

Questa che lei chiama rivalutazione di quella che per molti aspetti è la regina delle discipline non deve stupirci. La filosofia è design concettuale, è il nutrimento di quella vita mentale che fa dell’umanità una “specie speciale”. La saggezza di Socrate, la sua “dotta ignoranza” che spesso chiamiamo in causa è l’effetto di questo design concettuale che la filosofia compie fin dalle sue origini. La Repubblica di Platone è un ottimo esempio. La Bauhaus come scuola di design, si iscrive nella stessa logica. Quante lampade abbiamo, quante poltrone tutte esteticamente e funzionalmente affascinanti, a dimostrazione dell’infinita capacità che hanno le idee di rigenerarsi e di mescolarsi con il divenire del reale e delle nostre esigenze. Lo stesso avviene per le nostre creazioni concettuali. Una cosa che vorrei sottolineare infine: la filosofia deve avere comprensione e rispetto per tutte le attività umane, nessuna supponenza postcrociana è oggi ammissibile. Identificare, analizzare e capire i problemi pressanti con cui abbiamo a che fare e sviluppare buon design concettuale per risolverli questa è la filosofia di cui abbiamo bisogno, per essere all’altezza del nostro tempo. Il messaggio di fondo del libro è proprio questo.

 

Autore: Massimiliano Cannata

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