Algoritmi e rivoluzione digitale: quale futuro?

Algoritmi di libertà: la potenza del calcolo tra dominio e conflitto (ed. Donzelli) il saggio di Michele Mezza, giornalista, inviato per il Giornale Radio Rai in Urss e in Cina, docente dell’Università Federico II di Napoli e direttore del centro di ricerca sul mobile PollicinAcademy è stato il focus di un partecipato dibattito che si è svolto alla FIEG di Roma. I meccanismi di profilazione e individualizzazione della comunicazione sono al centro della scena, come dimostrano i casi di Facebook, di Cambridge Analytica, e di Google, il tutto trova alimento nella potenza di calcolo che sta ridisegnando le forme della democrazia con delle conseguenze ancora difficili da prevedere per la collettività. Con l’aiuto di un autore che conosce molto bene le culture del digitale (curatore di un blog per l’“Huffington Post” dirige la comunità web www.mediasenzamediatori.org) proviamo a comprendere meglio la natura di questo “salto quantico”, che segnerà sempre più il cammino della nostra quotidianità.

Algoritmi: è la parola chiave
di questa delicata fase dello
sviluppo scientifico e tecnologico.
Algoritmi che entrano nella politica,
nell’economia, nell’informazione, nell’impresa. Cosa succede adesso?

A tutte le latitudini geo politiche, in tutto il mondo, assistiamo ad un indebolimento delle forme tradizionali del potere che si sovrappone a una pressione sociale che reclama trasparenza delle governance e condivisione delle decisioni. Da qui si dipana poi la matassa delle nuove relazioni politiche e istituzionali che attraverso la rete stanno re-impaginando le forme del potere, con ogni tipo di dinamica, dai processi più direttamente innovatori, a forme che ricadono in un populismo digitale. Siamo ai primi passi di un processo che sta di fatto archiviando la precedente piramide della società gerarchica plasmata dalla fabbrica fordista. Però vorrei iniziare il nostro dialogo con una raccomandazione.

La ascolto…

Prima degli algoritmi nella scena politica entrano le persone, gli individui, i segmenti sociali che hanno richiesto e praticato la nuova società digitale. Dobbiamo provare a concentrarci meno sui meccanismi tecnologici e più sulle persone in carne ed ossa che stanno interpretando e richiedendo un nuovo modo di vivere di cui il sistema digitale è la conseguenza, non la causa. Queste persone chiedono innanzitutto partecipazione e protagonismo, ridisegnando la relazione fra governati e governanti in una forma paritaria,come accade in una normale conversazione. Ho scritto questo libro per avviare e mettere all’ordine del giorno una seria riflessione culturale sull’effettiva possibilità di negoziare l’algoritmo per rendere il calcolo uno strumento dialettico e non un vincolo inesorabile.

L’insegnamento di Olivetti

Adriano Olivetti, richiamato nell’interessante prefazione del filosofo della scienza, Giulio Giorello, aveva intravisto nell’automazione la condizione perché si verificassero nuove conquiste per l’umanità. Dobbiamo pensare che il celebre imprenditore di Ivrea era forse troppo ottimista?

Penso che sia stato estremamente isolato, ma non ottimista. La sua visione, che lo portò a concepire un’accelerazione straordinaria dell’innovazione tecnologica, il “Programma 101”, il primo personal computer, che decentrava all’individuo la potenza di calcolo prima riservata a pochi grandi apparati centralizzati, era proprio basato sull’idea che l’informatica fosse una tecnologia di libertà, come spiega nel discorso del 1959 tenuto al cospetto dell’allora presidente della Repubblica Giovanni Gronchi. Le nuove tecniche basate sul calcolo avrebbero – questa la tesi di fondo – emancipato l’uomo dal controllo sociale e dal lavoro alienante.

Non crede che qualcosa si sia inceppato, a giudicare dalle paure che stanno attraversando l’opinione pubblica spiazzata da questa nuova impetuosa ondata di innovazioni dirompenti?

Quello che non si è verificato, rispetto a quanto auspicato da Olivetti, riguarda il mancato processo di partecipazione e di negoziazione di queste nuove tecnologie. Quale tecnica si può considerare di per sé la soluzione di tutti i mali? Quale tecnologia del passato: dal fuoco alla scrittura, dalla staffa al timone a vento, fino alla stampa e al vapore, senza un conflitto sociale, una contrattazione delle parti ha prodotto mai effetti positivi? Credo nessuna. Il problema risiede nel fatto che la rete, il pensiero computazionale, non è stato ancora oggetto di un nuovo contratto sociale che possa civilizzare le tecniche, valorizzare le potenzialità di liberazione e nel contempo limitare le degenerazioni che tutte le opzioni sociali presentano.

L’algoritmo può trasformare il significato in azione

“L’individuo che vuole partecipare alla costruzione di senso – si legge nel saggio – ed entra nel circuito relazione della rete, in quello stesso momento vede intaccata la sua autonomia, insieme a ogni residua consapevolezza cognitiva e comunicativa”. Il soggetto, per dirla in sintesi, sta diventando una pedina da profilare al servizio dei grandi padroni della Rete. Si tratta di una deriva ineluttabile?

L’algoritmo, come sostiene il grande matematico americano Alexander Galloway, è un meccanismo che, trasformando il significato in azione, diventa inconsciamente eseguibile: ebbene bisogna che l’azione dialettica dei soggetti sociali trasformi quell’avverbio, inconsciamente, nel suo contrario, consapevolmente. Questo è il senso di quanto comincia a verificarsi in rete. Se solo avessimo fatto quest’intervista qualche settimana fa, Facebook sarebbe stato visto ancora come un gigante inattaccabile della rete e Cambridge Analytica, la società che ha profilato milioni di individui deformando la loro volontà elettorale, sarebbe ancora in attività, cosa che non è più. Dunque qualcosa sta accadendo, anche i giganti sono in fibrillazione.

In rete, come nella vita ordinaria, è chi ascolta che decide se una fonte ha più o meno credibilità o attendibilità, non è uno status professionale.

“La rete – ha detto nel corso del dibattito che si è tenuto alla FIEG – non è un semplice media, è una protesi della vita, proviamo a civilizzarla con un negoziato sociale”. Cosa vuol dire in concreto?

Questo è uno dei più inspiegabili e gravi equivoci in cui cadono anche brillanti osservatori della rete, come ad esempio l’economista Branko Milanovic, o anche molti mass mediologi che tendono ad omologare la rete al sistema dell’informazione. La rete è una protesi diretta della vita umana, non un travestimento dei media. Non vale in rete il meccanismo tradizionale dei sistemi dell’informazione, basato sulla credibilità, la professionalità. In rete, come nella vita ordinaria, è chi ascolta che decide se una fonte ha più o meno credibilità o attendibilità, non è uno status professionale.

Per questo motivo in rete anche grandi testate non riescono ad imporre il proprio peso e il proprio prestigio?

 Più probabilmente è questa la ragione per cui Facebook prevale su Google come fonte diretta. Come mai, bisogna infatti chiedersi, in rete una fonte vicina, intima e conosciuta, prevale su una fonte, prestigiosa, lontana e professionale? Se non riflettiamo su questa differenza alla fin fine ci sembrerà che con l’avvento del digitale è cambiato poco nel modo in cui circolano le informazioni, solo i mezzi, dalla carta al bit, quando invece è proprio la dinamica sociale che guida la

circolazione delle notizie che è radicalmente mutata.

Il dato come asset sociale

Stiamo sperimentando la contendibilità della nostra autonomia da parte di un potenza di calcolo che risiede in poche mani. Esistono strumenti che possono invertire questo pericoloso trend?

Questo è il vero nodo, e non riguarda i social che sono un aspetto appariscente ma marginale di un mondo più vasto rappresentato dal pensiero computazionale, che oggi chiamiamo direttamente, evidenziando un vincolo inesorabile, intelligenza artificiale. Gli algoritmi, spiega Craig Venter, il celebre genetista, non servono a far giocare i giornalisti con i network ma a riprogrammare la vita umana. È su questo piano che dobbiamo collocare la riflessione sul sistema digitale: qual è oggi il motore che guida le nostre azioni? La potenza di calcolo, la calcolabilità del futuro che grazie ai big data permette di tracciare piste di scorrimento per ogni azione di ogni singolo utente. Questo potere va contrastato, ma non inibito perché ci offre straordinarie opportunità di libertà, come sosteneva appunto Olivetti. Per contrastarlo bisogna cominciare a ragionare sulla negoziazione del numero e sull’affidabilità dei sistemi algoritmici che, spiega molto bene Giulio Giorello, non sono mai inevitabili e univoci, ma presentano sempre soluzioni che possono essere rovesciate e trasformate.

Nella società dell’informazione il dato è un asset sociale. L’algoritmo assume e licenzia (vedi il caso di Amazon), la blockchain automatizza le organizzazioni e può fare a meno di sindacati, partiti, istituzioni. Dobbiamo pensare che gli strumenti della democrazia e le sofferte conquiste di libertà che hanno segnato secoli di storia sono giunti al capolinea?

Già a metà degli anni 90 Paul Viriliò, il filosofo della dromologia, la scienza che studiava la velocità, parlava di democrazia automatica, ossia di un modo di organizzare la convivenza sociale basato su meccanismi e congegni preordinati, come i sondaggi, o i referendum, che non offrivano realmente spazio a un approccio critico e dialettico. Oggi il tema diventa ancora più pressante: può il sistema di calcolo sostituire l’incidente della differenza di giudizio, l’eccezione del dissenso? Pensiamo proprio alla blockchain, che oggi sembra diventare la panacea di tutti i mali. Si tratta di un automatismo che appiattisce ogni discussione: la quotazione della moneta la decide la blockchain, il sistema sanitario lo gestisce la blockchain, la mobilità la pianifica la blockchain. Ma chi controlla la blockchain?

Risponda Lei alla domanda.

Nel libro, facendo una battutaccia, dico che la blockchain del bitcoin è controllata sicuramente da due persone: una è il titolare dell’algoritmo di base che ne bilancia il funzionamento, il secondo è colui che ha una pistola puntata alla tempia del titolare dell’algoritmo che bilancia il funzionamento. È di certo un paradosso che coglie il rischio che dietro un apparente decentramento si nasconda poi un’ulteriore centralizzazione. È comunque evidente che siamo ad una svolta che reclama un’innovazione di processo della democrazia: non tanto in relazione alle tecnologie diffuse, quanto per le tipologie delle persone che abitano ormai il pianeta, persone che tendono a sottrarsi ad ogni irreggimentazione, a reagire direttamente ad ogni forma di comando dall’alto. Il populismo, che pure oggi è una forma di linguaggio esteso della politica, ne è una prima applicazione, ma siamo ancora all’inizio del percorso.

Guardiamo alla più stretta attualità. Un capitolo del saggio è dedicato al “partito momentaneo e al fenomeno del ribellismo molecolare”. Le ultime elezioni politiche cosa hanno da insegnarci sul terreno del delicato binomio: algoritmi e libertà?

In tutto il mondo, in ogni scacchiere geopolitico, le tradizionali macchine di organizzazione del consenso sembrano in affanno, se non proprio fuori giri. Si tratta di ragionare sul fatto che la cassetta degli attrezzi della nostra politica è ancora quella mutuata dal fordismo, quella che Baumann chiamava la società del lavoro di massa, consumo di massa, media di massa e, continuando, potremmo dire, partiti di massa, sindacati di massa, voto di massa, ecc. Quella in cui viviamo è invece una società caratterizzata dal lavoro individuale, dai consumi personalizzati, dai media on demand. Dunque cambiano tutte le dinamiche, tutte le relazioni, tutte le tecnicalità della politica. Giocando con la macchina del tempo potremmo dire che se Lenin si riaffacciasse risponderebbe alla domanda del suo celebre saggio sul partito “Che fare?”, con la risposta: un bot.

Ammetterà che fare politica non è semplice, per non dire che è un’impresa intercettare flussi elettorali sempre più volatili.

Oggi per fare politica e organizzare il consenso bisogna fronteggiare una poderosa massa di differenze, un pullulare di individui, una moltitudine di personalità che hanno proprio nell’essere diversi il proprio valore comune. Ma come si organizza la diversità? Non certo partendo dalle identità quanto dagli obbiettivi, cercando cioè di aggregare occasionalmente, momentaneamente, energie individuali che in quel momento hanno un obbiettivo comune. Cito come esempio, al netto dei contenuti e del risultato, l’Assemblena nazionale Catalana, una forma partito che in pochi mesi ha aggregato una grande folla di aderenti, unificando figure sociali ed interessi immediati molto diversi, se non antagonisti fra loro in nome di un obbiettivo: l’indipendenza. Così sono nate le primavere arabe, i movimenti Occupy Wall Street. Bisogna cercare, però, di evitare l’errore di valutare questi movimenti con il metro del partito classico: la tenuta, la strategia, la convinzione, perché siamo di fronte a stati d’animo, a momentanee sensazioni che si trasformano in azione.

Quando la potenza di calcolo si separa dagli Stati

La potenza del calcolo si separa da quella degli Stati, divenendo prerogativa dei tycoon che hanno ormai superato ogni “indicatore di potenza compatibile”. Se la separazione di Stato e calcolo segna la fine dell’Europa westfaliana, quali equilibri geopolitici si faranno strada?

Anche su questo tema in pochi mesi si è verificata una clamorosa inversione di tendenza. Nel mio studio si parla di “algoritmo nazione”, ossia di un ritorno prepotente dello Stato come entità, come impresario, della potenza di calcolo. Penso alla Cina, o alla Russia o anche agli Stati Uniti di Trump, dove il vertice statale, di natura autocratica, tende ad identificarsi proprio con il monopolio della potenza computazionale. Ha ragione Putin quando afferma che: chi controllerà l’intelligenza artificiale controllerà il mondo, terreno che lo vede impegnato per primo. Non considero certo positivo questo contraccolpo, bisogna però attrezzarsi a leggere altre ragioni: lo strapotere dei grandi monopoli dell’algoritmo, che stava riducendo il pianeta ad un salotto di pochi protagonisti, da Bezos, a Zuckerberg, a Jack Ma, a Larry Page, ha inevitabilmente sollecitato la reazione degli apparati statali che non hanno accettato di rimanere sotto schiaffo della Silicon Valley. Per dirla in sintesi: è in atto un ripensamento dell’idea di Stato che tenderà ormai a coincidere per ogni comunità con il proprio algoritmo: ogni regime non può, infatti, non avere un motore tecnologico coerente e funzionale con il proprio modello sociale.

In conclusione vorrei che si soffermasse su una proposta forte che emerge nella trattazione e che si può riassumere nell’affermazione: “mettiamo l’algoritmo sul tavolo”, per svelare le finalità e i principi che orientano la ricerca in campi delicati come la genetica, in modo da valutare se è possibile trascrivere in termini pubblici e sociali la potenza del calcolo, che deve diventare spazio pubblico, un “bene comune”, per usare un termine caro all’ultimo Rodotà.

Si tratta di un auspicio, di un progetto realizzabile, di un programma politico?

È innanzitutto un conflitto. Bisogna partire dai soggetti negoziali: interrogandosi su chi oggi ha interesse e possibilità a portare al tavolo della trattativa i giganti del calcolo. Proviamo a fare qualche ipotesi: le città, come luoghi che valorizzano le piattaforme e i dispositivi tecnologici, le università, come centri di sapere che testano e producono algoritmi, e le categorie professionali, come i medici e i giornalisti. Credo meno ad un’azione di normativa statale: da un lato per la lentezza e approssimazione di un intervento centrale, dall’altro perché non possiamo regalare ai monopoli della rete la bandiera della libertà che un intervento autoritario statale potrebbe concedergli. Insomma dobbiamo ritrovare intelligenza e fantasia per mettere in campo quello che ha rappresentato un termine fondante per lo sviluppo del software: un linguaggio per l’autonomia e la libertà degli individui.

Altri tempi, forse troppo lontani per cultura, assetti sociali, visione non crede?

Negli anni 60 si creò quel ciclo virtuoso che dal free speech arrivò, attraverso le stesse persone, negli stessi luoghi, con gli stessi linguaggi, al free software. Poi la battaglia fu vinta dai grandi privatizzatori, da Steve Jobs e Bill Gates, ma credo che quell’imprinting non sia stato mai estirpato. Del resto proprio uno dei padri dell’informatica, Alan Turing, ci ha insegnato che l’innovazione la troviamo sulla stretta linea che separa l’intraprendenza dalla disubbidienza. Intraprendenza, come è facile constatare, ce n’è davvero molta, ora è venuto il momento di dare metodo e strategia alla disubbidienza.

Autore: Massimiliano Cannata

Michele Mezza

Biografia

Giornalista, Michele Mezza è stato inviato del Giornale Radio Rai in Urss e in Cina. Nel 1993 ha collaborato al piano di unificazione del Gr. Nel 1998 ha elaborato il progetto di Rai News 24. Attualmente dirige il centro di ricerca sul mobile PollicinAcademy e la comunità web www.mediasenzamediatori.org, oltre a curare un blog per l’Huffington Post. Insegna all’Università Federico II di Napoli. Tra i suoi titoli: Sono le news bellezza! Vincitori e vinti nella guerra della velocità digitale; Giornalismi nella rete. Per non essere sudditi di Facebook e Google.