I giganti del capitalismo digitale e le nuove povertà

“Gigacapitalisti”, “gigworkers”, il male sta nelle parole, aveva ragione Pirandello. “Giga” il bisillabo più in uso nell’era di Internet contiene in sé tutte le contraddizioni di una società polarizzata tra ricchi e poveri. Colin Crouch nel saggio Se il lavoro si fa gig (ed. Il Mulino) ha tratteggiato un interessante affresco dei “nuovi poveri”, gli “intermittenti” del capitalismo digitale. “Il lavoro – scrive lo studioso – ormai si accende e si spegne come fosse lampadina, le aziende lo attivano quando ne hanno bisogno, scaricando sul singolo responsabilità e oneri. Assumono e poi licenziano senza alcun ammortizzatore dipendenti di cui non hanno più bisogno”. Questa grave distorsione del libero mercato chiama in causa le istituzioni, soprattutto le associazioni di categoria, rimasti spesso “afoni”, incapaci di affrontare le profonde trasformazioni del sistema economico e produttivo, che stanno aprendo la strada alla post democrazia. Per comprendere le dinamiche in atto a livello globale può venire in soccorso il lucido pamphlet di Riccardo Staglianò, (Gigacapitalisti ed. Einaudi) che mette a fuoco con efficacia quello che accade sul versante opposto a quello dei nuovi poveri, si tratta di quel variegato territorio popolato dai signori del mondo globale, i “padroni delle piattaforme” digitali. “L’edizione del 2019 del rapporto sull’Internet Society – commenta il giornalista inviato di Repubblica – ha coniato l’espressione giusta, parlando di total service envinonments. Sono gli ambienti a servizio totale, che avvolgono la nostra esistenza, immergendola in una infosfera, fatta di tecnologie, strumenti, applicazioni sofisticate, con cui viviamo in simbiosi. Non c’è da stupirsi se i Rockefeller di oggi, rispondono al nome di Musk che va nello spazio, di Bezos che si candida a diventare come il controllore dell’emporio unico dell’umanità, di Zuckemberg che socializzando la rete ha modificato il nostro modo di relazionarci e di stare nel mondo. Epoche distanti si potrebbe dire, ma connotate da una profonda analogia: “allora come ora il vento di una rivoluzione profonda avrebbe rimodellato le basi materiali della civiltà, da contadina a industriale ieri, da industriale a digitale oggi”. Se Rockefeller nei primi anni del ‘900 controllava l’80% del petrolio mondiale, Google detiene attualmente il 90% del mercato delle ricerche in Europa e quasi il 70% in America. Carnegie aveva rimpiazzato il ferro con l’acciaio reinventando l’edilizia, Ford aveva inventato l’era dell’automobile, Bill Gates introducendo un pc in ogni casa e Larry Page hanno messo nelle mani di ciascun utente tutta la conoscenza del mondo, consegnandoci l’enorme responsabilità di saperla gestire”. Mentre il Leviatano di Hobbes appare, così, in declino, i “sultani del silicio”, i soggetti privati che prendono forza, scompaginando equilibri che sembravano immodificabili. Servirà, ha sottolineato Pasquale Stanzione nella relazione annuale dell’Autorità Garante della Privacy, una corretta governance della gig economy per scongiurare il rischio di un nuovo caporalato digitale. Nel generale ridisegno degli assetti di potere l’Unione sarà chiamata a definire un Corpus iuris all’altezza delle sfide che si profilano. Concentrare ogni spinta riformatrice nella ricerca di un equilibrio tra rule of technology e rule of law, è divenuto un imperativo categorico che bisogna mettere in pratica per arginare le povertà crescenti e la strisciante “colonizzazione del pensiero”, che, lo ha denunciato Luciano Violante, rischia di incidere sulla libertà cognitiva, imprescindibile garanzia di ogni altro diritto fondamentale.

 

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