Sono nata il giorno che IBM ha presentato al mondo il primo Mainframe, e sono cresciuta con quella generazione di genitori che cercava di tenerti buona e attaccata alle sottane. Ma ricordate la canzone di Cat Stevens “Father and son”? beh io ero una di quelle che non sentivano ragioni, dovevo andare, dovevo capire, dovevo cercare. Allevata da Alberto Manzi, ho subito capito che la cultura sarebbe stata la mia via di fuga (consapevolezza subliminale al tempo, poiché avevo solo tre anni, ma illuminante poiché saper leggere mi avrebbe consentito di non dipendere da papà per le favole, visto che arrivava sempre tardi e il più delle volte stanco, e mamma aveva sempre troppo da fare con quel rompiscatole che frignava dalla culla).
Crescendo tra Topolino e Selezione del Reader’s Digest ho alimentato la mia sete di sapere e di libertà sognando viaggi e aspettando il riscatto di Paperino contro l’avversa fortuna. In verità nel tempo cominciava a serpeggiare sempre di più in me il sospetto che il mio affetto immotivato per una categoria di emeriti co*** come Paperino e Paperoga e la mia spiccata avversità rispetto ai personaggi stereotipati di Paperina e Topolina, stesse già covando la bestiolina di Satana che sarebbe venuta alla luce alcuni anni dopo, ma nel dubbio continuavo a cercare, fuori e dentro di me, il capo per dipanare la matassa ingarbugliata del mio io adolescenziale.

La bimba di 4 anni seduta sul tavolo della cucina col papà, che attendeva il primo allunaggio, e che alle elementari divorava gli articoli di Barnard, pubblicati da Selezione, era cresciuta ormai e doveva prendere una decisione: medicina o tecnologia?

Qualcosa mi diceva che queste due strade erano simili ma non potevo intraprenderle insieme, e poiché negli anni 80 i medici erano una categoria molto in difficoltà, optai per qualcosa di molto avveniristico: l’ingegneria aerospaziale. Da questo momento in poi nasce la consapevolezza che inserirmi lavorativamente sarebbe stato fortemente dipendente dalla mia capacità di applicare una tecnica zen allo sviluppo di un profilo professionale resiliente in grado di adattarsi senza necessariamente adeguarsi agli ambienti lavorativi che negli anni 80-90 non è che fossero poi così tanto aperti.

D’altra parte, se ancora solo qualche anno fa qualcuno mi indicava in un contesto lavorativo come “la signora bionda” probabilmente la cura è stata peggiore del malanno, poiché ancora molti sono certi di potersi consentire certi atteggiamenti perché “tanto non succede nulla…” (illusi!).
Il riscatto lo assapori quando poi, sul campo operativo la tua posizione è considerata per quel che vale (purtroppo non tanto spesso e comunque mai in regime di dipendenza), ma ha sapore amaro quando tale considerazione si tramuta in timore e, di conseguenza, in tentativo di esclusione. Che sia però chiaro che queste mie considerazioni non vogliono essere lamentazioni veterofemministe, visto che l’atteggiamento che riscontro è essenzialmente giustificato dal fatto che, in quanto elemento con una personalità definita e dichiarata, in contesti in cui la ragion di stato richiede un equilibrio non chiaramente espresso ma sottilmente leggibile, la mia figura è percepita come un elemento “da studiare” e potenzialmente critico (in entrambe le accezioni del termine).
È altrettanto vero però che laddove il fabbisogno di supporto è chiaro ed impellente invece ti accolgono come il deus ex machina e ti stendono tappeti rossi, ma sempre sperando che comunque, risolto il problema, tu li utilizzi per varcare gloriosamente l’uscita.

Ma come si arriva a questo punto guardandosi indietro con soddisfazione? Costruendo la propria vita come una blockchain.

La vita, per poter chiarire l’analogia, è un registro su cui il tempo disegna, attraverso gli eventi, dei “blocchi” che rappresentano i nostri ricordi e costruiscono la nostra esperienza. Quanto più questi blocchi sono mantenuti integri e preservati a monte, dall’ingerenza esterna, tanto più la personalità che si costruisce risulta forte.

E poiché questo processo continua per tutta la vita, se le modalità di approccio al futuro si rafforzano, sulla base dell’esperienza, ma senza sconvolgere essenzialmente i propri modelli mentali, si riesce a governare, per quel che è possibile, l’evento prossimo, sviluppando strumenti che ti diano sufficiente probabilità, se non di successo, quanto meno di danno limitato.

D’altra parte, chi non ha dubbi nella vita, ma se ad ogni bivio che si propone, fossimo sempre disponibili a invalidare l’intera struttura su cui abbiamo basato la nostra vita, modificando radicalmente degli atteggiamenti o cancellando la memoria dei nostri errori, creeremmo un “sistema vita” instabile e facilmente “hackerabile”.

E quando si giunge al punto che sai che quello che hai avanti è sicuramente meno di quello che ti sei lasciato alle spalle, cominci ad applicare gli strumenti che sono diventati ormai propri del tuo modello mentale, per essere, se si può, felice. Il mio “modello organizzativo” è basato sulla Teoria dei Vincoli (Theory of Constraints, concetto di filosofia del management elaborata da Eliyahu Goldratt ed esplicitamente spiegata nel suo capodopera “The Goal”, pubblicato nel 1984) , che si basa sull’assunzione che in ogni sistema, a prescindere dalla sua complessità, esistono pochi fattori significativi che impediscono o rendono difficile il raggiungimento di un determinato obiettivo.

Lo sforzo, dunque, non deve essere teso a individuare quelle cose, poche e fondamentali, che possono essere abilitanti alla serenità e perseguirle con tutte le proprie forze, ma fortemente conoscere quelle che sicuramente mineranno questo percorso e scansarle con grande destrezza.

Buona vita a tutte.

Autore: Imma Orilio, fondatrice CREMETE srls

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