Autore: Massimiliano Cannata

Lo sviluppo e la diffusione delle intelligenze artificiali ha cambiato il nostro modo di essere nel mondo, oltre ai nostri processi conoscitivi. La svolta non è solo di natura tecnica, ma spirituale e filosofica. Tornano di attualità grandi interrogativi che hanno segnato l’evoluzione del pensiero occidentale. Quella di Benanti è una delle voci più lucide della contemporaneità. Aperto in maniera autentica all’innovazione, segue con passione e senso della trascendenza lo spostamento della frontiera della conoscenza verso traguardi sempre più ambiziosi, senza mai perdere di vista la centralità dei valori e dell’uomo. “Solo se sapremo includere – spiega nell’introduzione del suo stimolante saggio – le humanities nella creazione delle macchine sapienti potremo sperare di non produrre, in un futuro più o meno vicino, società disumane”. Un monito importante che le classi dirigenti a qualunque livello dovrebbero tenere ben presente.
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L’intervista

Prof Benanti che cosa dobbiamo ancora capire dell’intelligenza artificiale per superare l’atteggiamento di paura e di sbigottimento che sembra oggi prevalere in diversi contesti sociali?

Girerei la questione in un’altra direzione. Quello che vediamo nella società non è tanto un atteggiamento di paura quanto piuttosto un senso di disagio che è generato dalla scoperta di un nuovo “utensile”. Sembra strano che un semplice strumento possa provocare questo sbigottimento, non è però la prima volta che accade. Quando nel XVI secolo è stata creata la lente convessa, sono nati due potentissimi strumenti: il telescopio e il microscopio. Il primo ci ha permesso di indagare l’infinitamente grande, il secondo di studiare l’infinitamente piccolo. Da quel momento è cambiata per sempre la conoscenza dell’universo, abbiamo infatti compreso che la terra non era più al centro del sistema solare e che noi siamo fatti di un numero sterminato di cellule.

In questa fase della storia sta avvenendo qualcosa che può rievocare la rivoluzione della modernità?

Vi sono molte analogie. Disponiamo del pc che lavora i dati, generando un nuovo strumento, che definiamo macroscopio per intenderci, che ci consente di studiare l’infinitamente complesso. L’intelligenza artificiale che opera su grandi masse di dati che è un presidio fondamentale in grado di allargare l’ambito delle nostre conoscenze. Quello che sta avvenendo in molti ambiti disciplinari può dare molto bene l’idea di questo continuo spostamento in avanti della frontiera dei saperi.

Possiamo fare qualche esempio?

Le neuroscienze, le cui teorie più avanzate hanno dimostrato come viviamo immersi in un ecosistema di relazioni complesse sostanziate di neuroni, ma anche le scienze economiche e ingegneristiche si ormai fondano le loro indagini sulla realtà sull’analisi di una mole enorme di dati. Dobbiamo, insomma renderci conto, che siamo a un cambio d’epoca e questo, come avevo accennato prima, crea un disagio analogo a quello che abbiamo sperimentato con l’avvento della modernità.

Come va affrontata una svolta così radicale?

Le trasformazioni in atto non sono arrestabili, come tali non sono né da temere né da accogliere in maniera acritica. Non si può, infatti, nutrire la vana pretesa di fermare il vento con le mani. Quello che possiamo esercitare da esseri dotati di intelligenza e ragione è una forma di equilibrato discernimento che ci consenta di afferrare tutte le opportunità che possono aprirsi in un universo in divenire.

I robot ne sanno più di noi?

Quando si parla di macchine sapienti dobbiamo pensare a dei “mostri” che ne sapranno più di noi e che ci domineranno?

Bisogna capirsi bene su questo che è certamente un aspetto delicato. Quando settantamila anni fa ci siamo spostati dall’Africa e abbiamo abitato diverse latitudini della terra, il nostro comportamento è stato molto diverso da quello di molti animali. Se un mammut si fosse spostato dalle steppe siberiane per andare in Africa e in Asia, prima di affrontare questa nuova avventura della sua storia evolutiva, avrebbe dovuto aspettare i tempi evolutivi di una discendenza che avrebbe portato alla nascita di esemplari privi della folta pelliccia. L’uomo non ha osservato nessuna attesa, perché fin dall’inizio si è attrezzato di strumenti adeguati per preparare il suo lungo viaggio verso il progresso. Detto in altri termini: quello che per altri esseri viventi è rigidamente confinato nel DNA per noi è qualche cosa di aperto che ha a che fare con l’uso sapiente di artefatti tecnologici. L’artefatto tecnologico è la nostra“traccia”che serve ad abitare il mondo, o se preferisce è una modalità importante per manifestare la nostra umanità.

Non crede che gli ’”utensili” che ci mette a disposizione la telematica sono, però, bel altra cosa rispetto agli strumenti del passato?

E’ vero. C’è stata una stagione in cui l’artefatto è stato un utensile legato alla mano poi è arrivata la rivoluzione industriale ed è arrivata la macchina, che programmata e guidata dall’uomo è in grado di fare delle operazioni senza stancarsi mai. Mentre per la mano che agita il martello non era, evidentemente, possibile, raggiungere una performance paragonabile.

Con l’IA siamo un passo ancora oltre rispetto alla civiltà delle macchine?

Sicuramente sì, perché la macchina, cui lei si riferisce, è diventata non più qualcosa che programmiamo, ma che addestriamo a fare delle operazioni. Mi riferisco all’IA e al machine learning. La rivoluzione di cui tanto si parla sta nel fatto che prima d’ora pensavamo che questo ambito fosse esclusiva prerogativa umana. Siamo, invece, di fronte a un’altra specie di “sapiens” che abita il pianeta, ecco perché la comprensione di questa macchina diventa qualche cosa di particolarmente impegnativo.

Nasce così il problema di comprendere la fisionomia di questa nuova specie. A che punto siamo su questo fonte?

E’ la scommessa con cui dobbiamo fare i conti. Quando parliamo di macchina sapiens parliamo di quella particolare sensazione dell’uomo di non essere l’unico in grado di fare cose intelligenti sulla terra. Dobbiamo abituarci a questo salto epistemologico, che in maniera così forte e netta non si era probabilmente mai verificato. Sta di fatto cambiando il nostro modo di capire e di conoscere il mondo. La correlazione di quantità impressionante di informazioni unita alla potenza dei PC che danno un significato ai dati ha aperto orizzonti inimmaginabili.

La hanno avuto dunque vinta ingegneri e informatici, che si muovono a loro agio in questa “selva” fittissima di codici e informazioni?

Il paradigma di cui stiamo parlando sembra effettivamente fondato su saperi di stampo ingegneristico, questo è vero solo parzialmente. Penso a un vecchio detto di Eraclito, che sosteneva che l’oracolo di Delfi non parlava, né taceva, semplicemente significava.

Può spiegarlo, a chi non ha molta dimestichezza, con il mito e la storia delle religioni?

Tradotto nella contemporaneità vuol dire che noi possiamo accedere a questi computer che si nutrono di dati lavorando sugli algoritmi. Per restare nell’analogia dobbiamo vedere la macchina come se fosse una divinità in grado di “pronunciare delle profezie oracolari” sulla realtà.

La capacità ermeneutica rimane, però, una prerogativa umana, non dimentichiamolo. E’ la più certa ancora di salvezza cui possiamo agganciarci?

Certamente. La macchina sapiente non deve, infatti, entrare in competizione darwiniana con l’uomo, ma diventare una sua alleata.

Quale Governance per la IA

Una parte molto interessante del saggio parla di Governance dell’IA. A chi va affidata e come andrà strutturata questa delicata attività?

La Governance è la traduzione contemporanea di un processomolto antico. Noi veniamo da una tradizione occidentale cherisale alla polis, che esprime un modo di essere della società. Lapiazza è il punto focale, il luogo dove diverse componenti sociali si ritrovano per confrontarsi sul bene comune. Sulla scia di questo ragionamento occorre dire che una buona governance dell’IA non la si ottiene applicando direttive che dall’alto vengono calate verso il basso. Lo sforzo che dobbiamo compiere sarà quello di creare degli spazi dove persone competenti cercano di coniugare il progresso tecnologico con lo sviluppo effettivo della comunità amministrata. L’immagine che dobbiamo avere in mente è insomma quella di un’agorà aperta dentro cui l’intelligenza collettiva potrà agire per orientare al bene comune il prepotente sviluppo tecnologico che sta segnando questa fase della nostra storia.

Humanities dentro le tecnologie. Un progetto o più semplicemente un auspicio?

Quando si parla di RenAissance scritto all’inglese con la “A” maiuscola si vuole evidenziare il tentativo di togliere i dati dal centro della società digitale per raffermare l’uomo quale protagonista, proprio come era avvenuto durante la grande stagione dell’umanesimo.

Torna sempre con prepotenza la partita delle competenze e della conoscenza. Una ricerca condotta dalla Fondazione GCSEC e dall’Università di Oxford (di cui hanno riferito Elena Agresti e Marco Fiore nel numero scorso della nostra rivista n.d.r) pone l’accento sul fenomeno dello skill shortage. Di quali profili bisognerà dotarsi per riuscire ad agire nel mondo complesso?

Esiste un problema di formazione e di educazione. Bisogna ridare all’uomo la capacità di decodificare quello che accade. C’è bisogno di un nuovo curriculum di scienze umanistiche che sappiano dare alle persone la capacità leggere questa svolta epistemologica e di utilizzare le competenze tecniche che sappiano dire cosa accade all’interno di queste “scatole” che sono gli algoritmi. Fino a quando trattiamo gli algoritmi come delle scatole nere, delle black box, saranno loro a decidere per noi. Le nuove competenze devono insomma permetterci di rendere trasparenti queste black box.

Le imprese di fronte alla quarta rivoluzione

Altra cosa che bisognerà cercare di capire è fino a che punto il mondo del lavoro potrà essere pronto a reggere l’impatto della “Quarta rivoluzione”. Mentre sindacati e imprese si stanno interrogando sulle trasformazioni in atto, la dottrina sociale ha preso posizione in maniera netta sul tema della difesa dei diritti dell’uomo e del lavoratore. Papa Francesco sta forse svolgendo un ruolo di “supplenza”?

Esiste una cultura ecclesiale che cerca di diventare fermento per tutta la società. C’è una domanda di senso su queste questioni cruciali che richiedono una riflessione sociale e teologica. Mi pare legittimo, oltre che necessario, che l’impegno del Papa vada in questa direzione.

Etica e sviluppo tecnologico. Vengono in mente le preoccupazioni espresse negli ultimi scritti di Emanuele Severino. Si tratta di timori infondati?

Severino forse è troppo tranchant nelle sue posizioni. In realtà sappiamo che la tecnologia non è solo cieca volontà di potenza ma anche un insieme di risposte rispetto a una domanda che l’uomo si fa sulla realtà che ci circonda. L’uomo che nel passato si è sentito minacciato dalla realtà, ha fatto uno strumento che si chiama fucile. Quel fucile non è solo uno strumento di offesa, ma è anche uno strumento ermeneutico, che mi fa vedere il mondo diviso tra amici e nemici. Ecco che entra in gioco l’artefatto tecnologico, come risposta a una domanda sulla realtà. Solo se vedo la domanda che sta dietro l’artefatto potrò avere un rapporto etico con l’artefatto. Definire un codice etico vuol dire questo: far risuonare la domanda dal produttore al consumatore in ogni istante, perché quella domanda sia soffocata con indifferenza e superficialità.

 

 

 

 

 

 

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