Il tempo della complessità. Verso un umanesimo digitale.

“Comprendere il nostro tempo significa comprendere la mondializzazione che trascina l’avventura umana, divenuta planetariamente interdipendente, fatta di azioni e reazioni: politiche, economiche, demografiche, mitologiche, religiose. Per trovare un orientamento dobbiamo interrogarci sul divenire dell’umanità, che dai motori congiunti scienza/tecnica/economia ci spinge verso un “uomo aumentato” ma per nulla migliorato, e verso una società governata da algoritmi, tendente a farsi guidare dall’intelligenza artificiale e, nello stesso tempo, a fare di noi delle macchine banali. Il trinomio cui facevo riferimento prima: scienza/tecnica/economia conduce a catastrofi a loro volta interdipendenti: degradazione della biosfera e riscaldamento climatico, che portano a immense migrazioni; moltiplicazione delle minacce mortali con l’incremento delle armi nucleari, delle armi chimiche e con la comparsa dell’arma informatica, capaci di disintegrare le società. Tutto ciò provoca angosce, ripiegamenti su se stessi, deliranti fanatismi.”

Il mutamento della condizione umana
ben descritto da Edgar Morin, nella
prefazione del saggio di Mauro Ceruti,
 Il tempo della complessità (ed. Raffaello
Cortina), offre un interessante viatico
per un radicale cambiamento del nostro
sguardo sul mondo. Ceruti, che Morin
definisce“uno dei rari pensatori del nostro
tempo ad aver compreso e raccolto la
sfida che ci pone la complessità dei nostri
esseri e del nostro mondo”, è oggi più che mai impegnato ad affrontare le difficoltà di quest’epoca mutante, che dovrà trovare la forza prima di tutto morale per affermare un nuovo umanesimo planetario.

Docente di filosofia della scienza e filosofia della complessità presso l’università IUML di Milano, Mauro Ceruti, che sempre Morin definisce “spirito potente e creativo”, è stato tra l’altro l’ispiratore dello splendido simposio La sfida della complessità tenutosi a Milano nell’ormai lontano 1984, che ha segnato una svolta nel campo della filosofia e della ricerca epistemologica.

Professore, il mondo è attraversato da instabilità, incertezze e dalla paura strisciante che possa scatenarsi una “prima guerra globale”. A un filosofo non possiamo astenerci dal chiedere di aiutarci a ritrovare un orientamento. Da dove cominciamo?

Bisogna cominciare a ripensare le idee di progresso, di crescita, di globalizzazione all’interno di una prospettiva complessa, impegnandoci finalmente a misurare la crescita in termini diversi da quelli puramente quantitativi relativi al PIL, e mettendo in campo gli indicatori dello sviluppo umano. L’attuale modello, che non considera questo aspetto, è pienamente interno alle coazioni a ripetere di giochi a somma nulla, in cui il successo individuale viene fatalmente alimentato a scapito del bene comune. La necessità di cambiare pagina appare ormai stringente nel momento in cui il dogma della crescita all’infinito è stato drasticamente messo in discussione dal perdurare della crisi economica europea e mondiale, e dai pericoli prodotti da uno sviluppo tecnico e scientifico che resta miope, dimenticando che una “comunità di destino” lega oggi in modo indissolubile tutti gli individui e tutti i popoli del pianeta fra loro e all’ecosistema globale, ciò che proprio Edgar Morin ha definito la nostra “Terre-Patrie”.

Un fatto è certo: il mondo che abitiamo è immerso nella diversità etnico-culturale, lo spazio entro cui ci muoviamo sfugge alle tradizionali categorie epistemologiche, nelle nostre città siamo sollecitati a continui confronti con l’alterità. Come possiamo definire questa epoca densa di luci e ombre?

I problemi planetari dei nostri giorni sono complessi e multidimensionali. Sono esiti di processi storici che avvengono, contemporaneamente, nei tempi brevi dell’attualità, nei tempi medi dei secoli della modernità, nei tempi lunghi della storia delle civiltà, dell’evoluzione della specie Homo sapiens, dell’evoluzione degli ominidi nostri antenati… Per affrontare i problemi dei nostri giorni, è necessaria una prospettiva policronica, che renda possibile vedere ogni evento all’intersezione di processi temporali ed evolutivi di dimensioni assai differenti. È solo adottando questa prospettiva per il presente e per il passato che potremo concepire le possibilità per il futuro.

Quale futuro per la “vecchia” Europa

Al tema dell’Europa Lei ha dedicato molti scritti, basti ricordare, tra gli ultimi, il bel lavoro realizzato con Edgar Morin “La nostra Europa” (Ed. Raffaello Cortina). Non crede che la debolezza del Vecchio Continente sia un dato con cui bisognerà fare i conti se vogliamo imboccare la strada di una ripresa solida?

Il problema politico fondamentale è oggi quello di tradurre sul piano istituzionale la tensione fondatrice dell’intera storia d’Europa. Una tensione che ha visto contrapposte la profonda diversità delle singole culture nazionali e il fatto che queste culture si siano sempre influenzate a vicenda e hanno fatto emergere, in forme diverse nelle diverse età storiche, un’unità, una vera e propria cultura europea. Partendo da questa consapevolezza, è necessario avviare una riflessione sugli stati nazionali, invenzione storica dell’Europa moderna volta ad affrontare la tensione fra identità e diversità, fra unità e molteplicità.

Ma è proprio lo stato nazionale, nella visione classica legata al Leviatano di Hobbes, delimitato in termini di identità e di territorio, ad aver mostrato la corda. Verso quali equilibri stiamo andando?

Dobbiamo sviluppare la conoscenza e la coscienza dell’irriducibilità e della complessità degli intrecci fra Stati, nazioni, etnie. Solo la comprensione di questi intrecci potrà consentire di delineare nuovi meccanismi politici e istituzionali, più adeguati alle identità complesse dei singoli e delle collettività. L’Unione Europea, in effetti, si è rivelata capace di disinnescare molte conflittualità storiche proprio perché, in parte, le sue istituzioni sono state modellate da un ripensamento della natura delle identità e dei territori nazionali.

Malgrado ci sia stato questo ripensamento, cui Lei fa riferimento, da più parti si paventa l’implosione dell’Europa. Dobbiamo essere pessimisti?

Oggi l’Europa è nuovamente dinanzi a un rischio di disgregazione interna e a una minaccia, esterna, ai suoi valori, alle sue regole di convivenza. La risposta deve essere all’altezza del pericolo. Siamo nel pieno di una lotta agonica da cui può nascere un’Europa finalmente unita, ma da cui

può derivare anche un’Europa disgregata, terreno di colonizzazione per vecchie e nuove superpotenze. Nessuno potrà sottrarsi a questa scelta. Nessuno è al riparo dai pericoli, e nemmeno dalla responsabilità di costruire il proprio e l’altrui futuro.

I nazionalismi, “colpi di coda” di un mondo spaventato

Esiste un forte rigurgito di conservatorismo, agitato da chi vuole negare il progresso e l’innovazione, che non può essere ignorato. Cosa pensa al riguardo?

O si va avanti o si va indietro. E andare indietro significa scommettere sul potere taumaturgico degli Stati nazionali. Certo, in un momento di crisi, i cittadini hanno bisogno di comunità, di radici. Ma non dobbiamo dimenticare che gli Stati nazionali europei hanno già fallito rovinosamente, nel periodo della “grande guerra civile europea” fra il 1914 e il 1945. I nazionalismi dei nostri giorni sono il colpo di coda di un mondo spaventato.

In questa prospettiva nessun euroscetticismo può essere ammesso, non crede?

Non è più tempo. L’euroscetticismo è da “sonnambuli”. Il ritorno alla piena sovranità degli Stati nazionali è fuori tempo massimo. Oggi questo ritorno è reso impossibile, se non in forme pericolose e regressive, dalla natura diventata transnazionale dei problemi fondamentali del nostro tempo: energia, migrazioni, esplosione delle conoscenze, terrorismo, economia, incontrollabilità degli sviluppi tecnologici…

La crisi della democrazia liberale è un ulteriore aspetto che merita di essere commentato. Il vento della xenofobia e il populismo (le ultime elezioni italiane ne sono testimonianza) vanno interpretate come una “temporanea risposta emotiva” o si tratta di minacce reali per la democrazia?

Gli individui non sanno più dove collocarsi, dentro la società. Assistiamo a una polarizzazione sempre più acuta fra il potere, da una parte, e individui incerti e tormentati, dall’altra. C’è un bisogno di partecipazione che fuoriesce dai quadri tradizionali della democrazia rappresentativa, e che rischia di trovare una scorciatoia: quella del leader carismatico. Per rispondere alla crisi della democrazia nei singoli Stati, bisogna osare più democrazia dove ancora questa è carente, cioè nelle istituzioni sovranazionali, e in particolare nell’Unione Europea.

Una politica “afona”, incapace di farsi sentire di fronte ai grandi oligopoli economici e alla grande finanza, rende il quadro ancora più complicato. Potremo voltare pagina?

La crisi della democrazia si intreccia con una più radicale crisi del pensiero politico. Mai come oggi, per la gestione di enormi problemi nazionali e sovranazionali, c’è bisogno di visione, di cultura, di consapevolezza della nuova condizione umana globale. E mai come oggi, la politica seleziona una classe dirigente senza visione, senza cultura, senza consapevolezza. E perciò legata a una miope tattica di autoconservazione di sé, in una condizione di degrado morale e materiale. Senza affrontare questa drammatica crisi culturale, sarà impossibile rigenerare la democrazia e ridare nel contempo peso e credibilità alla politica.

Verso un umanesimo planetario

Il “nuovo umanesimo” vagheggiato da Lei e da Edgar Morin, che ci riporta alla grande utopia di Kant richiamata nell’ultimo capitolo del libro, è una prospettiva realizzabile o rimane un “sogno da filosofi”?

Il nuovo umanesimo planetario, se sarà, sarà prodotto dalla coscienza della comunità di destino che lega ormai tutti gli individui e tutti i popoli del pianeta, nonché l’umanità intera all’ecosistema globale e alla Terra. L’umanità può sperare di risolvere i suoi problemi vitali solo riconoscendosi come una comunità di destino, comunità una e molteplice, condizione emergente della condizione umana nel pianeta. Vorrei ribadire che l’universalismo che ne deriva non oppone la diversità all’identità, l’unità alla molteplicità.

Si tratta di un capovolgimento profondo, che richiama tutti a un livello più alto di responsabilità. Ne saremo capaci?

Non abbiamo altra scelta. L’identità della specie umana contiene la possibilità, per quanto improbabile, dell’emergenza di una nuova umanità. La condizione umana nell’età globale ha in sé la possibilità di una concreta universalizzazione del principio umanistico. Che vuol dire trasformare il dato di fatto dell’interdipendenza planetaria nel processo di costruzione di una civiltà planetaria, promuovendo un’evoluzione verso la convivenza e la pace. È un compito difficile e improbabile, ma allo stesso tempo creativo e ineludibile, che nel tempo della complessità ci è posto dalla sfida di far nascere l’umanità planetaria, una e molteplice.

Autore: Massimiliano Cannata

Mauro Ceruti

Biografia

Mauro Ceruti è uno dei pionieri nell’elaborazione del pensiero complesso. I suoi scritti, tradotti in numerose lingue, hanno segnato il dibattito filosofico negli ultimi trent’anni. Tra i suoi libri: Il vincolo e la possibilità, La nostra Europa con Edgar Morin, La sfida della Complessità con Gianluca Bocchi. È docente di epistemologia genetica e filosofia della scienza allo IULM di Milano

 

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