Algoritmi e informazione: giornalismo e industria delle notizie cambiano volto

Intervista VIP con Aldo Fontanarosa

L’intelligenza artificiale entra in redazione, cambiando la macchina editoriale e il modo di produrre e confezionare le notizie. Aldo Fontanarosa, giornalista di Repubblica attento osservatore dell’innovazione in tutte le fenomenologie, nel suo ultimo saggio Giornalisti ROBOT guarda alla sua stessa professione, osservando con equilibrata fiducia l’orizzonte emergente che vede gli algoritmi scrivere in autonomia articoli al servizio di professionisti, che devono imparare a governare questo strumento straordinario. Rilettura critica di un’enorme quantità di dati e sensibilità etica devono essere messe in campo, per non trasformare l’infosfera, in cui viviamo ormai immersi, in una minaccia per la libertà e l’indipendenza dell’informazione.

Aldo Fontanarosa il suo scritto è un affresco fedele della contemporaneità, che vede uomini e macchine operare ormai in simbiosi. Quali scenari si aprono per chi fa il delicato mestiere del giornalista?

Gli scenari che hanno preso forma sono essenzialmente due. Nel primo gli algoritmi sono ormai in grado di scrivere notizie sostanzialmente indistinguibili da quelle scritte dagli umani. Gli algoritmi partono da un set di dati strutturati. Mi riferisco, ad esempio, ai dati che sintetizzano l’esito di una partita tra Roma e Lazio o tra Milan e Inter. Sulla base di questi dati – risultato, pubblico pagante, ammoniti, espulsi, situazione di classifica, le altre gare della giornata – gli algoritmi realizzano articoli di sintesi puntuali e precisi, sfoggiando per altro abilità stilistiche spiccate. Sanno usare i sinonimi, evitano le ripetizioni, dimostrando, infatti, una padronanza sorprendente.

Quello del giornalismo sportivo è un caso interessante, ma non crediamo l’unico …

Certamente no. Lo stesso meccanismo vale per gli articoli sui conti trimestrali, semestrali, annuali delle aziende. The Associated Press, la grande agenzia d’informazione statunitense, grazie all’algoritmo Wordsmith ha aumentato di dieci volte la produzione di pezzi sui conti economici delle imprese. Pensiamo che adottando lo stesso meccanismo si possono scrivere pezzi sulle previsioni metereologiche.

Fin qui siano dentro l’orizzonte del primo scenario. Vogliamo parlare del secondo?

Il secondo scenario vede donne e uomini, interpreti di un giornalismo di approfondimento e investigazione, servirsi dei software algoritmici più avanzati per realizzare le loro inchieste. Nel 2015, l’agenzia d’informazione The Associated Press – ancora lei – ha vinto il premio Pulitzer, massimo riconoscimento nel campo del giornalismo, grazie all’inchiesta Seafood from slaves. Donne e uomini dell’Associated Press hanno dimostrato che duemila persone vivevano in condizioni disumane in un’isola del Sud est asiatico, costrette ad estenuanti battute di pesca, giorno e notte. La pistola fumante, la prova degli abusi inflitti a questi schiavi è venuta dal satellite che – grazie a software di intelligenza artificiale – ha pedinato dal cielo le imbarcazioni degli schiavisti.

Un “passo oltre”

Emanuele Severino, Giuseppe Longo, Carlo Sini, solo per citare alcuni tra i massimi pensatori dell’ultimo secolo riferendosi alla complessa dinamica che caratterizza lo sviluppo della tecno scienza, hanno sostenuto in più scritti che “la contemporaneità è andata un passo oltre” rispetto alla rivoluzione apportata nella modernità dalla diffusione delle macchine. Che cosa c’è da capire di questo stravolgimento profondo, che sta cambiando non solo gli assetti organizzativi dell’impresa, ma il nostro stesso modo di vivere e relazionarci?

Innanzi tutto, occorre comprendere che l’Europa e i singoli Stati devono dotarsi di regole precise. Sono fiducioso che lo faranno, come è avvenuto per il regolamento GDPR in materia di privacy, che è una soluzione molto efficace. L’intelligenza artificiale è una tecnologia positiva, virtuosa. Ma è anche invasiva e penetrante. Politici e amministratori devono semplicemente piantare una segnaletica stradale e dire agli algoritmi: in questa strada non entri, divieto d’accesso, qui devi svoltare a destra, qui rallentare la tua corsa.

Entrano i robot, paura in redazione. Abbiamo i mezzi per disinnescare questa istintiva paura?

Assolutamente sì. Bisogna spiegare ai cronisti – a quelli magari da poco assunti e ai giovani in cerca di lavoro – che un giornalismo di base, di routine sarà appaltato prima o dopo all’intelligenza artificiale. Questi professionisti, per disinnescare le paure e sterilizzare comportamenti difensivi, devono alzare l’asticella e impegnarsi in un giornalismo di qualità e approfondimento, multimediale e multisensoriale, che le macchine non sono ancora in grado di creare.

Algoritmi di libertà (ed. Donzelli) è un recente titolo di Michele Mezza, che si interroga sul rapporto tra democrazia, tecnologie e informazione, spiegando come il dato è ormai divenuto un “asset sociale”. Dobbiamo temere che l’intelligenza automatica, che elabora e riannoda percorsi di senso, possa togliere l’autonomia e la libertà al cronista in cerca della verità?

Nel 2016, due giornalisti della Süddeutsche Zeitung hanno ricevuto, da una fonte segreta che si faceva chiamare John Doe, 11 milioni e mezzo di documenti che hanno provato forme di elusione ed evasione fiscale tra le più gravi nella storia dell’umanità. Ne è nata l’inchiesta sui Panama Papers. Avere così tanti dati e documenti è come non averne. Undici milioni di immagini non sono esplorabili, consultabili. Senza l’intelligenza artificiale, l’inchiesta non sarebbe stata dunque possibile. Senza i software algoritmici, i giornalisti non avrebbero potuto creare una banca dati navigabile, trovare i nomi degli evasori, dimostrare la fondatezza delle accuse. Ricordo questo importante avvenimento in cui l’intelligenza artificiale non ha certo limitato l’autonomia del cronista, anzi: le ha semmai permesso di esprimersi.

Twitter: ecco il nuovo direttore

La rivoluzione tecnologica è anche una rivoluzione che riguarda la confezione delle notizie e il modo di raccontare i fatti. Se Twitter può, come viene detto in un’interessante scheda del saggio, essere considerato come il direttore di un giornale nell’era del web, cosa dobbiamo aspettarci?

Tutti i grandi editori al mondo tendono l’orecchio alla Rete. Grazie a piattaforme di intelligenza artificiale come Chartbeat, possono disporre di un quadro preciso dei gusti, delle aspettative, delle preferenze dei navigatori dei siti e degli abbonati. Acquisite queste informazioni, gli editori e i giornalisti devono fare una scelta. Seguiranno forse i gusti dei navigatori nel tentativo di fare un traffico sempre maggiore? In questo caso, la Rete sarà il direttore ombra del sito, cosa che giudico negativamente. Il rischio che si presenta in questo modello è di inseguire l’ascolto e il gradimento del pubblico a ogni costo facendo dei clic sui pezzi un’ossessione, quasi una droga. Più virtuoso è l’atteggiamento degli editori e delle redazioni che conservano una piena autonomia di giudizio pur avendo una consapevolezza molto precisa delle aspettative del pubblico”.

Machine learning e produzione delle notizie, come si coniuga questo binomio?

Gli algoritmi non sono software statici, non ripetono sempre la stessa cosa. Sono software che evolvono nelle loro competenze grazie all’esperienza e all’osservazione della realtà. Sono macchine che imparano appunto: “machine learning” per riprendere la sua definizione. Questa loro straordinaria attitudine torna utilissima anche nel giornalismo. Quando un algoritmo scrive bene, riceverà un semaforo verde dai programmatori umani: da quel momento, eviterà gli errori e ripeterà le sole azioni corrette. Inoltre, l’algoritmo imparerà dalla lettura degli articoli che gli umani hanno scritto in passato a conoscere a fondo il tema di cui si sta occupando al momento. Alla luce di queste sue attitudini, dobbiamo osservare che il machine learning risulta decisivo nel giornalismo dell’intelligenza artificiale.

La rete impone la dimensione dell’«intelligenza collettiva», per usare la nota definizione di Pierre Levy. Per un mestiere come il giornalismo legato alla firma, fatto di individualità, non crede che il cambio di prospettiva sia molto forte?

I giornalisti sono per definizione individualisti, se non addirittura narcisi, non amano molto collaborare con colleghe e colleghi perché smaniosi di apparire come i soli artefici di uno scoop. Questo atteggiamento, a mio parere miope, si scontra con i nuovi modelli dell’era dell’intelligenza artificiale. L’ingresso degli algoritmi in redazione sta portando alla creazione di pool di professionisti chiamati a lavorare in gruppo. Non solo. Editori come Tamedia, in Svizzera, incoraggiano i loro cronisti a condividere le agende telefoniche e i documenti, che confluiscono in banche dati comuni, aperte e navigabili. Banche dati redazionali governate dall’intelligenza artificiale che ne garantisce la navigabilità.

Ognuno di noi ha un “gemello digitale” lo si è visto molto bene nella fase dell’emergenza sanitaria. Dobbiamo pensare che la pandemia ha cambiato l’informazione, che c’è un “avatar” in ogni redazione?

Ce ne sono di tanti tipi. Avatar è il software algoritmico che sbobina, per tuo conto, la registrazione di un’intervista, parola per parola. È un gemello servizievole, che ti solleva da un compito molto ingrato. Avatar sono i conduttori virtuali dell’agenzia d’informazione Xhinua, in Cina, che leggono il telegiornale in inglese e mandarino, con sembianze ed espressioni umane ormai perfette.

Un’ultima considerazione. Vorrei che ci soffermassimo sul delicato incrocio etica, comunicazione e potere. Nell’era dell’IOT e delle tecnologie diffuse è possibile trovare un equilibrio sostenibile tra questi fattori che pesano sul destino stesso delle nostre democrazie?

Le tecnologie evolvono e il loro controllo determina un forte potere in capo a chi le crea e a chi le utilizza, anche nella comunicazione. L’etica, che si fonda su principi universali, deve anch’essa evolvere per rispondere ai nuovi scenari. Anche il giornalismo degli algoritmi deve essere governato dalla legge morale e dalla deontologia. Un esempio su tutti: un articolo è stato scritto da un robot? Molto bene, a patto che venga sempre detto ai lettori, per rispondere a un principio sacrosanto fatto di trasparenza e di lealtà.

Autore: Massimiliano Cannata

Aldo Fontanarosa

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