Nel pieno della digitalizzazione del tessuto imprenditoriale italiano, c’è un fronte che resta troppo spesso in ombra: quello della sicurezza operativa. Mentre parliamo di cloud, intelligenza artificiale e smart working, le aziende – soprattutto quelle piccole e medie, spesso radicate nel Sud Italia – stanno automatizzando impianti, interconnettendo macchinari, raccogliendo dati in tempo reale. Lo fanno con entusiasmo, talvolta con ingenuità, quasi sempre senza una reale protezione. L’articolo che segue è un invito a guardare con occhi nuovi il cuore tecnologico delle nostre imprese.

A riconoscere che la sicurezza OT non è un lusso da multinazionali, ma una necessità concreta per chiunque voglia innovare senza esporsi a rischi che possono compromettere produzione, reputazione e continuità operativa. Un racconto autentico, che nasce dall’esperienza sul campo, tra aziende familiari che crescono, territori in fermento e tecnologie che avanzano più in fretta della consapevolezza. Perché oggi, più che mai, non esiste innovazione solida senza sicurezza industriale.

OT Security e cultura della protezione: la sfida silenziosa delle imprese del Sud

C’è qualcosa di straordinario nelle aziende del Sud Italia. Una forza silenziosa, una tenacia ereditata, un’identità che affonda le radici nella terra, nella tradizione e nell’ingegno. Sono imprese che non nascono nei grattacieli, ma in officine riadattate, nei garage dei padri, nei magazzini trasformati con sudore e visione. Realtà spesso familiari, tramandate di generazione in generazione, che oggi – quasi senza accorgersene – si trovano dentro una rivoluzione: quella digitale. Macchine che dialogano con il cloud, impianti che producono in modo automatico, software che ottimizzano tempi, scarti, costi. Una trasformazione potente, irreversibile. Eppure, in questo viaggio verso il futuro, manca ancora un compagno fondamentale: la sicurezza. Non solo quella «cyber» – che pure resta centrale – ma soprattutto la sicurezza operativa, quella che protegge le fondamenta industriali, le linee di produzione, i macchinari, i sensori, i sistemi che muovono la manifattura del Sud.

L’automazione avanza, la protezione no

Nel Sud, la sicurezza viene spesso confusa con l’informatica da ufficio. PEC, e-mail, backup, antivirus. Tutto importante, certo. Ma il vero rischio si annida anche altrove: nei capannoni, nei silos, nelle celle frigo, nelle etichettatrici automatiche, nei PLC collegati a internet e dimenticati da chi li ha installati anni fa. È lì che si decide la continuità di un’azienda. È lì che la qualità del prodotto prende forma. È lì che si vince – o si perde – la competitività. Ma paradossalmente, è proprio lì che la parola “sicurezza” sembra assente. Nessun controllo, nessuna policy, nessuna segmentazione di rete, nessun aggiornamento, nessun allarme. La verità è semplice quanto preoccupante: la OT Security – ovvero la protezione dei sistemi industriali connessi – è oggi la nuova frontiera delle minacce. E mentre le multinazionali si dotano di SOC e strumenti avanzati, il vero campo di battaglia è tra le PMI del Sud, che si sono digitalizzate con entusiasmo, ma spesso senza difese, senza guide, senza consapevolezza.

Eccellenze produttive, fondamenta fragili

Pensiamo a una cooperativa vinicola che controlla la fermentazione con sistemi SCADA. O a un’industria alimentare che confeziona biscotti con linee robotizzate. Sono eccellenze, vere. Ma basta un ransomware che blocca un PLC, un attacco DoS che manda offline un gateway industriale, per spegnere tutto. La produzione si ferma. I dati si corrompono. I clienti aspettano. I fornitori premono. E il danno – che parte da una vulnerabilità banale – si propaga come una crepa in una diga. Non si tratta di disinteresse. Non c’è superficialità. C’è piuttosto una assenza di cultura strategica. La sicurezza viene vista come un fastidio, un tema “da esperti”, qualcosa che si risolve con un firewall o un backup. Ma chi lavora ogni giorno accanto ai macchinari sa che un attacco OT non è un rischio virtuale: è una minaccia concreta, devastante, sistemica.

L’illusione della lentezza

In molte conversazioni con imprenditori locali si sente ripetere una convinzione diffusa: “Qui la vita è lenta, qui non succedono certe cose”. Ma oggi la lentezza non è più un vantaggio. In un mondo iperconnesso, la lentezza è un’illusione che espone al rischio. Non servono 500 dipendenti per essere nel mirino di un attacco. Basta una rete non segmentata, un dispositivo connesso a Internet, un protocollo industriale non cifrato. E i criminali digitali non aspettano altro. Cercano le vulnerabilità più comuni, le falle invisibili, i bersagli deboli. E spesso li trovano proprio dove c’è meno rumore: nelle province, nei distretti agroalimentari, nei laboratori artigiani che hanno investito tutto nell’innovazione tecnologica, ma niente nella protezione.

Serve un racconto nuovo. E azioni concrete

La sfida, oggi, non è solo tecnica. È narrativa. È culturale. Serve un nuovo modo di parlare di sicurezza: senza gerghi, senza terrorismo psicologico, senza slide incomprensibili. Servono partner locali, professionisti che sappiano entrare nelle imprese, ascoltare, costruire fiducia, accompagnare passo dopo passo verso la protezione del valore. Perché proteggere un impianto non significa rivoluzionare tutto. Si può iniziare da una mappatura, da un controllo accessi, da una segmentazione della rete tra IT e OT. Piccoli interventi, mirati, proporzionati. Ma che fanno la differenza. E soprattutto, serve portare la cultura della sicurezza dove non è mai arrivata: negli stabilimenti, tra i responsabili di produzione, tra gli operai specializzati, tra i giovani che tornano al Sud per guidare il cambiamento.

Un futuro che si costruisce partendo dalla protezione

Il Sud ha tutto. Ha talenti artigiani e ingegneri silenziosi, ha aziende familiari che innovano senza clamore, ha territori che producono eccellenza sotto ogni latitudine. Ha la forza di chi è abituato a fare tanto con poco. Ha la creatività di chi trasforma ogni limite in un’opportunità. Ha la visione di una nuova generazione che vuole crescere restando fedele alle proprie radici. Ma ha anche un bisogno urgente: proteggere ciò che ha costruito. Perché ogni impianto connesso, ogni linea di produzione automatizzata, ogni flusso dati che viaggia nei capannoni agricoli o industriali è anche una superficie di attacco. E ignorarlo significa mettere a rischio non solo i profitti, ma il lavoro, la storia, le persone.

Non possiamo più pensare che la sicurezza sia un tema tecnico, da affidare “a qualcuno”. La sicurezza è un bene collettivo, è una responsabilità che riguarda imprenditori, tecnici, consulenti, fornitori, operai. È la rete invisibile che tiene insieme l’efficienza, la fiducia, la continuità. Il futuro non si difende con un firewall. Si difende con la conoscenza, con la formazione, con la collaborazione tra chi conosce il territorio e chi padroneggia la tecnologia. Si difende parlando di sicurezza in modo semplice, inclusivo, diretto, senza barriere culturali né soglie di accesso. E allora ripartiamo da qui: dalla consapevolezza. Costruiamo insieme una cultura della sicurezza operativa che parli la lingua delle imprese locali.

Che non resti nei convegni, ma entri nei magazzini, nei frantoi, nelle aziende metalmeccaniche, nelle serre, nelle linee di imbottigliamento. Una cultura che protegga non solo i dati, ma i destini. Perché nel Sud ogni impresa è più di un business: è una storia familiare, una comunità, una speranza che cresce con fatica. E ogni speranza, se non la si protegge, può spegnersi nel silenzio. Ma oggi, quella protezione è possibile. Ed è il primo passo verso un futuro forte, solido, consapevole.

Autore: Mimmo Salvatore Nisi

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